Sono passati 25 anni da quel 6 aprile 1992, quando l'esercito serbo-bosniaco occupò completamente le colline che attorniano la città di Sarajevo e cominciò ad attaccare la capitale della neonata repubblica di Bosnia Erzegovina. Sarajevo sorge infatti in una valle, lungo le rive del fiume Miljacka, ed è circondata da tutti i lati dalle colline. Occupando le colline, dunque, si poteva stringere la città in una morsa infernale, in un assedio completo. Ed è quello che fece l'esercito serbo-bosniaco, guidato da generali come Ratko Mladic e Stanislav Galic, sotto la guida politica di Radovan Karadzic (tutti oggi in carcere, condannati dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per i crimini nell'ex Jugoslavia).
L'esercito serbo affermò di attaccare Sarajevo perché non riconosceva valida la proclamazione di indipendenza della Bosnia Erzegovina dalla Jugoslavia, avvenuta poche settimane prima (1 marzo 1992). A quella dichiarazione si erano opposti soprattutto i politici nazionalisti serbo-bosniaci, che dunque ritenevano opportuno rispondere militarmente a quella dichiarazione. Ma l'assedio di Sarajevo non fu un atto di guerra né fu condotto secondo il diritto internazionale. L'assedio di Sarajevo fu un crimine contro l'umanità. La città venne assediata per oltre 1.000 giorni, ufficialmente fino al 29 febbraio 1996. La popolazione sarajevese, civile ed inerme, divenne il bersaglio di militari e cecchini assedianti: si contarono oltre 12.000 vittime durante l'assedio e oltre 50.000 feriti.
Da allora il nome Sarajevo, nella memoria collettiva dell'opinione pubblica europea, viene associato alla guerra, al conflitto, ai cecchini. Ma in realtà il nome Sarajevo, proprio a partire dal quel 6 aprile 1992, è diventato anche sinonimo di moltissime iniziative di rifiuto della logica della guerra, che puntavano a costruire la pace. Sarajevo è sinonimo di migliaia di persone e di gruppi che hanno voluto dimostrare la crudeltà e l'inutilità del conflitto armato.
Le prime due vittime di quell'assedio, per esempio, furono due ragazze: Suada Dilberovic e Olga Sucic, che stavano partecipando a una manifestazione per la pace su uno dei ponti cittadini, il ponte di Vrbanja, e che vennero colpite dai cecchini proprio perché rifiutavano la logica della guerra. Era la violenza che voleva sopraffare la nonviolenza.
Sullo stesso ponte, l'anno successivo, venne ucciso Gabriele Moreno Locatelli: un pacifista italiano, che stava partecipando anche lui a una azione non violenta. L'idea della manifestazione era di deporre una corona di fiori sul memoriale di Suada e Olga, e poi consegnare del pane ai soldati serbi e bosniaci che si fronteggiavano dai due lati del ponte stesso. Nonostante fosse stato concordato il cessate-il-fuoco per consentire la manifestazione, qualcuno sparò lo stesso e uccise Locatelli. Un altro tentativo di mostrare che la violenza avrebbe vinto sulla nonviolenza.
Ed invece le manifestazioni per la pace, i movimenti nonviolenti, i gruppi disarmati a Sarajevo e per Sarajevo crescevano sempre più, proprio per dare un segnale diverso rispetto a quei crimini. Anche e soprattutto in Italia, ci furono moltissime persone che si spesero per la pace a Sarajevo. L'iniziativa più conosciuta all'epoca fu probabilmente la “Marcia dei 500”, organizzata nel dicembre del 1993, a cui prese parte anche don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta. E fu proprio don Tonino a tenere un celebre discorso, arrivando a Sarajevo: “Io vorrei che tutti quanti, tornando nelle nostre comunità, potessimo stimolare le nostre comunità, noi credenti soprattutto, stimolare i nostri Vescovi ad essere più audaci, a puntare di più sulla Parola del Vangelo. Perché, vedete, questa esperienza è stata una specie di ONU rovesciata: non l’ONU dei potenti è arrivata qui a Sarajevo ma l’ONU della base, dei poveri.
Allora io penso che queste forme di utopia, di sogno dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi, terra nuova, aria nuova, mondi nuovi, tempi nuovi… Quanta fatica si fa in Italia, ma abbiamo fatto fatica anche qui, anche con i rappresentanti religiosi… perché è difficile questa idea della difesa nonviolenta… Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati!”
Sarajevo è ancor oggi, a distanza di 25 anni, uno dei luoghi-simbolo nel mono per chi crede nella pace, nella non-violenza, nella convivenza possibile. Nonostante tutte le difficoltà, Sarajevo rimane ancora la “Gerusalemme d'Europa”: la città in cui nel giro di 500 metri si possono trovare Moschee, Chiese ortodosse, Chiese cattoliche e Sinagoghe. Pacificamente, fianco a fianco. Sarajevo rimane dunque la città in cui, ogni giorno, molte persone provano a costruire quella pace che le armi hanno provato invano a distruggere per sempre.
A ricordare questa dimensione speciale di Sarajevo è stato di recente anche Papa Francesco, durante la sua visita in città il 6 giugno 2015: “La guerra significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa dislocamenti forzati; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate. Voi lo sapete bene, per averlo sperimentato proprio qui: quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, cari fratelli e sorelle, si leva ancora una volta da questa città il grido del popolo di Dio e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà: mai più la guerra!
All’interno di questo clima di guerra, come un raggio di sole che attraversa le nubi, risuona la parola di Gesù nel Vangelo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). È un appello sempre attuale, che vale per ogni generazione. Non dice “Beati i predicatori di pace”: tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. No. Dice: «Beati gli operatori di pace», cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia.
Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia… Questi sì, «saranno chiamati figli di Dio», perché Dio semina pace, sempre, dovunque; nella pienezza dei tempi ha seminato nel mondo il suo Figlio perché avessimo la pace! Fare la pace è un lavoro da portare avanti tutti i giorni, passo dopo passo, senza mai stancarsi”.
Testo e foto di Daniele Bombardi, Regional coordinator for Bosnia Herzegovina and Serbia