LIraq vive da decenni in un costante stato di tensione e instabilità. Prima furono la guerra contro l’Iran e le Guerre del Golfo, poi linvasione statunitense post 11 settembre. Più recentemente, la guerra contro lo Stato Islamico, infine le crisi politiche e sociali, sfociate nelle proteste degli ultimi mesi del 2019. E ora il paese si ritrova a dover affrontare anche la diffusione del virus Covid-19, la pandemia che ha avvolto il mondo intero nella sospensione del lockdown, ma soprattutto in un manto spesso di morte, incertezze e paure.
A metà maggio, in Iraq i casi confermati di coronavirus erano 2.818 e 110 i decessi, un numero solo in apparenza ridotto, in realtà allarmante, se analizzato nel precario contesto che caratterizza il sistema-paese, la cui struttura economica è ben diversa da quelle occidentali. Come rivela uno studio dellUnesco sul mercato del lavoro iracheno, due terzi dei lavoratori in Iraq sono impiegati nel settore informale, che corrisponde al 99% delleconomia privata. Linformalità non prevede stipendi sicuri e ammortizzatori sociali in caso di perdita di salario. Per quel che riguarda loccupazione più stabile, invece, sempre secondo lo studio dellUnesco si tratta del lavoro pubblico, che corrisponde al 40% di tutti i posti di lavoro in Iraq. La prima fonte economica è il settore petrolifero, che assorbe buona parte dellimpiego pubblico e soprattutto produce il 99,6% dei ricavi dagli export.
Questa disuguaglianza tra lavoro pubblico, che gode ancora di garanzie salariali e sociali, e un settore privato dominato quasi esclusivamente dallirregolarità e dallinformalità trova corrispondenza nel consumo privato quotidiano. Gli impiegati pubblici che godono di un salario regolare possono permettersi di svuotare i supermercati, accumulando scorte a casa. Chi invece era costretto a vivere alla giornata, prima della crisi sanitaria, oggi soffre la fame. Inoltre, con lattuale crisi del petrolio, il cui prezzo è crollato sui mercati mondiali, le entrate dello stato stanno subendo una contrazione importante; è dunque probabile che, nel breve futuro, lo stato possa avere difficoltà a garantire il livello di vita dei suoi impiegati.
La situazione viene ulteriormente aggravata dalla scarsità di derrate alimentari: nel generale contesto di carenza, i commercianti hanno progressivamente alzato i prezzi dei beni di prima necessità per trarne guadagno. Se, per esempio, un chilo di pomodori normalmente costava 50 centesimi di dollaro, oggi non è possibile trovarlo al di sotto di 1,50 dollari.
Lo smantellamento del sistema sanitario
Se sul fronte del lavoro linformalità e la mancanza di diritti stanno accentuando le disuguaglianze sociali, anche sul fronte sanitario il sistema nazionale si trova in condizioni disastrose. Fino agli anni Settanta, lIraq conosceva una delle sanità più sviluppate del Medio Oriente: si trattava di un sistema pubblico, universale e gratuito per tutti, in cui sia le strutture ospedaliere che lacquisto di medicinali venivano gestiti dal ministero della salute. Durante il regime di Saddam Hussein, con la guerra allIran prima e le guerre e gli embarghi degli anni Novanta e dei primi anni 2000 poi, il sistema sanitario ha conosciuto un sostanziale e progressivo deterioramento.
Attualmente la sanità pubblica irachena è gravemente a corto di risorse e non adatta a rispondere a unemergenza medica su larga scala, in particolare ai bisogni di chi vive nei campi profughi (sono ancora 1,6 milioni gli sfollati interni in tutto il territorio del paese). Il quadro è aggravato dal fatto che, secondo le stime del ministero della salute, ben 20 mila medici iracheni sono emigrati dagli anni Novanta, lasciando pochi operatori sanitari qualificati nel paese. Gli anni della guerra allIsis hanno certamente causato un ulteriore forte indebolimento della capacità di intervento sanitario, con molte strutture rimaste inagibili a causa della distruzione e altre mal funzionanti. Le risorse economiche necessarie per la ristrutturazione del sistema sono limitate, sia in termini di forniture che di personale medico.
Nel frattempo le proteste esplose nel mese di ottobre 2019 contro la corruzione del governo iracheno continuano, nonostante la diffusione del coronavirus che aveva solo rallentato le proteste popolari in Iraq. Arrivata nel paese quando la mobilitazione era al suo apice, lepidemia aveva costretto a ridurre i numeri nelle piazze, anche a causa del lockdown stabilito dal governo: pur mantenendo i presidi a Baghdad, in piazza Tahrir, e nelle città meridionali, le manifestazioni si erano rarefatte e lattenzione dei manifestanti si era concentrata sul sostegno ai poveri e sulla distribuzione di mascherine e gel disinfettante.
Proteste (forse) sopite, sfollati a rischio
A tornare a smuovere le acque è stata la fiducia accordata dal parlamento, agli inizi di maggio, al nuovo governo guidato da Mustafa Khadimi. Il neoeletto premier ha cercato di contenere le proteste, ordinando da subito la liberazione dei manifestanti arrestati in questi mesi, e annunciando lapertura di una vera inchiesta sulle violenze contro il movimento che da ottobre ha subito gravi colpi (almeno 497 sono stati i manifestanti uccisi e oltre 9 mila i feriti).
Se il primo ministro Kadhimi mostra buona volontà, ai manifestanti non basta: chiunque sia il premier, non vogliono un governo figlio della spartizione del potere tra i partiti che hanno ridotto lIraq a un vassallo, a un paese corrotto la cui incapacità politica è stata dimostrata una volta di più dallepidemia da Covid, impossibile da affrontare dopo lo smantellamento di un sistema sanitario che un tempo rappresentava un modello di efficienza.
Altro grande interrogativo è offerto dal milione di sfollati presenti nel territorio nazionale: secondo le stime dellUnhcr, i profughi interni a rischio di Covid-19 sono 21.840. E di certo il sistema sanitario iracheno non ha la forza, le strutture adeguate né il personale medico per gestire unepidemia che rischia di diventare unemergenza nazionale.
Chiara Bottazzi