Con l’occupazione di Kinshasa e la caduta del vecchio regime, il 17 maggio 1997, il nostro paese è entrato di una nuova fase della sua storia. Rimane vero che la liberazione del nostro paese è alla fin fine venuta attraverso una via che resta la peggiore delle ipotesi: e cioè attraverso una guerra. Essa infatti è stata imposta al paese da un sistema cinico che ha utilizzato la forza delle armi contro una popolazione non armata, che aveva a cuore un suo progetto di nuova società, nella pace e nella riconciliazione. Questa oppressione, che è costata la vita a molti compatrioti, ha in un certo senso costretto la gente… ad accettare e sostenere una reazione armata come l’estrema soluzione”. La prima presa di posizione ufficiale della Conferenza episcopale ex-zairese sul cambio di regime avvenuto nella Repubblica democratica del Congo è questo Messaggio, intitolato “Alzati e cammina” (At 3,6)”, preparato dal Consiglio permanente riunitosi dal 23 al 28 giugno scorso.
“Quando ci siamo resi conto che la lotta armata è sfociata in un successo e in maniera straordinariamente rapida ha posto fine al vecchio regime, ci è parso evidente che Dio era con noi. Dio ha certamente esaudito la preghiera del nostro popolo”. Una fine sancita dalla morte stessa di Mobutu, avvenuta lo scorso 7 settembre, in Marocco, nell’ospedale militare di Rabat, dove egli, già ammalato di cancro, si era rifugiato con il suo clan.
Tuttavia la situazione presenta ancora molte ombre. Infatti, assistiamo allo spettacolo di delazioni, c’è uno spirito di vendetta, regolamenti di conti, calunnie, denuncie infondate. La maggior parte dei saccheggi avvengono per invidia… [Alcuni] si fanno giustizia da soli. Il ricorso al “collare” (un pneumatico incendiato infilato al collo, ndr.) diventa moneta corrente. O anche, genitori e bambini, accusati di stregoneria sono bruciati vivi. Quale orrore! Disgraziatamente, una certa presenza dei media contribuisce a banalizzare la vita umana e incoraggia alcuni a mettere in atto tali atti ignobili”.
Il Messaggio è la prima presa di posizione ufficiale dei vescovi sul cambio di potere nel paese ed è interessante per valutare alcuni snodi problematici sul ruolo della chiesa nella società.
Nel rapporto tra comunità cristiana, strutture ecclesiali e ruolo sociale della chiesa vi sono i segnali di una prima ambiguità. Dichiarano infatti i vescovi: “Lo scandalo è al suo culmine, quando [i cristiani] collaborano al saccheggio e alla distruzione dei beni della chiesa: scuole, ospedali, centri sociali, mezzi di trasporto, ecc. sono messi a sacco. E invece questi beni sono là per fornire loro un aiuto. Tali comportamenti dimostrano che questi “cristiani” non hanno mai compreso la finalità di queste infrastrutture e che in realtà, chiusi nel proprio egoismo, non si sono mai davvero convertiti a essa”. Più volte e anche nel corso sinodo per l’Africa è stata posta la domanda se erano gli africani a non aver compreso le finalità di queste strutture o erano esse stesse mal poste, tanto che la gente non le sentiva proprie. Il Forum dei missionari italiani in Zaire-Congo ha optato nel giugno scorso per ritornare a una chiesa più semplice nei mezzi e a una gestione più partecipata degli stessi. Queste strutture, per lo più sorte nell’era post-indipendenza e specialmente a opera dei missionari, colmavano un vuoto oggettivo nell’ambito delle infrastrutture sociali, come ad esempio nel campo dell’educazione o della sanità. Furono così create scuole e ospedali di un certo livello in tutto il paese, ponendo le condizioni per una sorta di monopolio, gestito in prima persona dalla chiesa.1 Nelle molte crisi che hanno colpito i paesi africani non è infrequente questi episodi, attuati proprio da cristiani, segno di un senso di estraneità su cui occorre riflettere.
Cambiare per non cambiare
La seconda ambiguità è nel rapporto con le nuove autorità. Da un lato infatti i vescovi denunciano che “certuni tra le nuove autorità pongono in essere azioni che non rispettano del tutto la dignità della persona umana… qui e là si segnalano episodi, messi in atto dai nuovi responsabili, che vanno contro le caratteristiche di uno stato di diritto…: giustizia sommaria senza il minimo processo; mutilazioni corporali; persone giustiziate o bruciate vive in piazza; la mediatizzazione delle scene di violenza; requisizione di chiese o scuole per scopi contrari ai loro; incitamento all’odio verso sedicenti nemici del popolo; ecc.”. Dall’altro il testo tace sull’ormai certo genocidio dei rifugiati hutu ruandesi nell’est Zaire durante l’avanzata di Kabila verso Kinshasa. E, secondo i pochi dati giunti all’ONU, si tratterebbe di migliaia di persone.
Una terza ambiguità sta nel rapporto tra chiesa e politica. Il Messaggio dichiara che se il processo democratico avesse avuto seguito, soprattutto nell’ambito della Conferenza nazionale sovrana la cui guida fu affidata a mons. L. Monsengwo, arcivescovo di Kisangani la guerra non sarebbe scoppiata. La responsabilità della guerra è dunque da addebitare alla classe politica che sotto il governo di Mobutu “non ha fatto altro che farsi beffe delle aspirazioni della gente. Se la messa in opera di istituzioni che dovevano condurci all’avvento di uno stato di diritto ha preso troppo tempo, è in gran parte a causa di questa classe politica… Tuttavia non pensiate, fratelli e sorelle, che la sola classe politica sia responsabile del blocco che ha avuto luogo dopo la Conferenza nazionale sovrana. Non è forse vero che questo forum, voluto dalla maggioranza della gente, e particolarmente auspicato dai vescovi dello Zaire, era una delle vie migliori per salvare la nazione zairese?”. Tuttavia avrebbe potuto la classe politica da sola farla fallire “se non avesse trovato l’appoggio di una parte del popolo”. L’episcopato, che al suo interno era diviso, non riuscì tuttavia ad appoggiare realmente il processo della Conferenza, nonostante le molte dichiarazioni in suo favore: ad esempio, alla manifestazione pacifica per la ripresa dei lavori della stessa, promossa dal gruppo Amos in collaborazione anche con altre confessioni religiose, che si concluse con un centinaio di morti, del febbraio 1992 non partecipò nessun vescovo, anche se successivamente un comunicato deplorò il massacro (cf. Regno-att. 6,1992,169). Le accuse di divisione e incertezza sulla linea della Conferenza episcopale erano anche venute da gruppi di laici, che accusavano alcuni vescovi di cercare mediazioni personali con Mobutu, proprio mentre ufficialmente lo criticavano (cf. Regno-att. 22,1993,685).
Il testo passa inoltre sotto silenzio la questione degli appoggi internazionali che sono stati alla base degli scontri che nel nord del Kivu denunciati solo da mons. Munzirhiwa e per questo ucciso nell’ottobre 1996 (cf. Regno-att. 14,1996,427) prepararono la guerra condotta da Kabila. Per i vescovi si tratterebbe solo di “scene di xenofobia, portate a compimento da compatrioti verso altri compatrioti”, anche se è vero che tali scene, “con l’alibi della geopolitica, hanno dato respiro a un regime che noi avevamo tutti insieme appena misconosciuto […] Così una parte del popolo, ha in un certo senso partecipato al mantenimento della dittatura”.
Duro, invece, il giudizio complessivo sulla popolazione, se non altro perché esclude ogni addebito sulle ambiguità e le incertezze della chiesa stessa: “Abbiamo dunque l’impressione che il nostro popolo voglia una cosa il cambiamento , e allo stesso tempo il suo contrario”.
1 In questo contesto ricordiamo che Mobutu è nato il 14 ottobre 1930 a Lisala (nella provincia settentrionale dell’Equatore) in una missione di cappuccini, dove il padre era capo-cuoco, e ha frequentato la scuola della missione.
articolo tratto da “Il Regno”