Educare alla Pace, Commissione Giustizia e Pace CEI (1998) / Parte prima

Parte prima
 
IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI
 
4. – Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra – per certi versi diventata “fredda” e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli emergenti – ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi “informazione consumatoria” e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
 
Si possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa… Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle “pulizie etniche” di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
 
La stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una specie di “bandiera” che serva a identificare il “nemico”, o più spesso in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l’odio per l’“altro” in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l’uomo e gli impedisce la libera ricerca dell’Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
 
Episodi di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che – in ogni campo – espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell’aggressività cieca che devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.
 
5. – Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette “trasversali”, dei “veleni” riversati sulle istituzioni, dell’investimento nel mercato di morte della droga.
 
Più in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il “bipolarismo incompiuto” della politica è vissuto come polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento, partiti…) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l’armonizzazione dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo politico, necessario alla loro soluzione.
 
La stessa “diaspora politica” dei cattolici non si configura come opportunità per l’animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all’interno delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.
 
6. – È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato chiamato “guerra” e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò che si continua a chiamare “pace”.
 
Un aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e dell’ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti significativi.
 
Pace e giustizia
 
7. – Ci sono situazioni in cui l’ordine regna; ma non sempre l’assenza della guerra è sinonimo di pace. C’è infatti assenza di conflitto anche nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull’ingiustizia: essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli oppressi.
 
Il giogo dell’ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l’uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare un’azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L’umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c’è pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per l’umanità un’invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell’uomo e nella storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
 
Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell’uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa dall’obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.
 
8. – La ferita più profonda inferta dall’ingiustizia è quella della violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e dall’indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell’essere umano nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale dell’incapacità dell’uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
 
La stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali – quali la salute, la casa, l’istruzione, il lavoro… – viene abbandonato all’incontro casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con l’indifferenza degli altri. Diversi modelli di “Stato sociale” mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e soprattutto perché l’apparato confida nell’efficienza organizzativa e dimentica che l’uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto.
 
Ritardare la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace durevole.
 
9. – Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e interpellano l’umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione consegna all’altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell’uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di doveri.
 
La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici, ripropone l’immagine dell’uomo come custode e non dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre violenze.
 
Pace e solidarietà
 
10. – La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all’osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta. L’uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio dell’amore, quando si affaccia sulla realtà dell’altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
 
La coscienza e l’esperienza comuni avvertono infatti che l’atteggiamento di pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l’originalità di ogni fisionomia e cultura, arricchisce l’orizzonte della collaborazione. Lo scambio di un gesto d’amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando l’essere dell’uomo viene squalificato – da sé o da altri – nasce l’odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un’incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il “nemico ereditario” della storia dell’uomo, dei popoli, delle fazioni, dei gruppi ostili. Quanto più l’odio distende le radici, tanto più vi è ostacolo alla pace.
 
Non solo l’odio tiene l’uomo lontano dai sentieri della pace: c’è anche il nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi, fuga nella realtà “virtuale”, talora anche violenza rivolta contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio, il brivido dell’autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di “folla solitaria”, dove l’indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della suggestione e dell’abitudine.
 
Una società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell’amore alla vita, non può essere una comunità di pace. La tempra dell’uomo costruttore di pace non si manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all’odio, ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all’amore.
 
11. – La pace nasce dalla liberazione dall’odio e dal superamento dell’indifferenza, perché ambedue rimandano all’altro un messaggio di squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
 
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l’altro e non necessariamente “contro”. Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata nell’annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per evitare che all’interno di questi meccanismi si insinui la dinamica dell’odio e che la percezione del bene e della verità si deformi nell’esclusione dell’“altro”, visto come una minaccia potenziale. La realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell’altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano l’antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie “giuste pretese” non siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la contropartita della sottomisura o dell’esclusione di altri al banchetto dei beni della terra.
 
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né di dissiparla nell’equiparazione di ogni opinione soggettiva. L’amore per la verità sa invece distinguere l’errore dall’errante e ha la forza di mantenere l’irriducibilità delle diverse prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza nei confronti di ciascuno.
 
12. – La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l’umanità intera.
 
La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se l’umanità trovasse le vie per un’alleanza globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui attraverso l’ampliamento dei trattati e delle istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.
 
Scelte e gesti di pace
 
13. – L’ascolto attento di quanto risuona nell’invocazione umana alla pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di speranza. Attorno a questi “semi di pace” sono anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o “schierate” dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
 
a) Il rifiuto della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e soccorre. Così anche l’intervento armato può assumere il volto dell’intervento umanitario, quando più nessun’altra ragione umana si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell’umanità e una delle cause più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l’Italia si sa a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi grondano sangue.
 
b) La non-violenza: l’opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione. L’uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole “nemico” perché altri lo hanno definito come tale.
 
c) L’obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell’uomo. La stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l’esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati, l’obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un’ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al vaglio di un’autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l’originario valore di profezia dell’obiezione di coscienza non dev’essere comunque stemperato in una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché l’adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere operatori di pace). Il significato autentico dell’obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva dell’obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
 
d) La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del genere “non profit”, quali le “banche etiche”, il “commercio equo e solidale”, ecc. Spesso anzi proprio le “organizzazioni non governative” raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove “uomini senza frontiere” accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità all’appartenenza all’unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.