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di Papa Giovanni Paolo II
al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
dal 1978 al 1999
cliccando sul link alla relativa sezione del sito web della
Città del Vaticano, nelle note
Laborem Exercens (14 settembre 1981)
(§2) «L’impegno in favore della giustizia deve essere intimamente unito a quello per la pace nel mondo contemporaneo. Certamente, si è pronunciata in favore di questo duplice impegno la dolorosa esperienza delle due grandi guerre mondiali, che durante gli ultimi 90 anni hanno scosso molti Paesi sia del Continente europeo sia, almeno parzialmente, degli altri Continenti. In suo favore si pronunciano, specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, la permanente minaccia di una guerra nucleare e la prospettiva della terribile auto-distruzione, che ne emerge
La posizione chiave, per quanto riguarda la questione della pace nel mondo, è quella dell’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se si considera, invece, l’evoluzione della questione della giustizia sociale, si deve notare che, mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno di Pio XI, l’insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto intorno alla giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell’ambito delle singole Nazioni, nella fase successiva esso allarga l’orizzonte alle dimensioni di tutto il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l’esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non, esigono una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In questa direzione procede l’insegnamento contenuto nell’Enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II e nell’Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI».
(§16) «Il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell’uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo: per la pace sia all’interno dei singoli Paesi e società, sia nell’àmbito dei rapporti internazionali, come è già stato notato molte volte dal Magistero della Chiesa, specialmente dal tempo dell’Enciclica Pacem in terris. I diritti umani che scaturiscono dal lavoro rientrano precisamente nel più vasto contesto di quei fondamentali diritti della persona»
Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987)
(§39) L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri. Segni positivi nel mondo contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei poveri tra di loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni pubbliche nella scena sociale, senza far ricorso alla violenza, ma prospettando i propri bisogni e i propri diritti di fronte all’inefficienza o alla corruzione dei pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei gruppi nel quadro del bene comune. Lo stesso criterio si applica, per analogia, nelle relazioni internazionali. L’interdipendenza deve trasformarsi in solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a tutti: ciò che l’industria umana produce con la lavorazione delle materie prime, col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.
Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema internazionale, che si regga sul fondamento dell’eguaglianza di tutti i popoli e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi economicamente più deboli, o rimasti al limite della sopravvivenza, con l’assistenza degli altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere messi in grado di dare anch’essi un contributo al bene comune con i loro tesori di umanità e di cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre. La solidarietà ci aiuta a vedere l’«altro» – persona, popolo o Nazione – non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro «simile», un «aiuto» (Gen 2,18), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio. Di qui l’importanza di risvegliare la coscienza religiosa degli uomini e dei popoli. Sono così esclusi lo sfruttamento, l’oppressione, l’annientamento degli altri. Questi fatti, nella presente divisione del mondo in blocchi contrapposti, vanno a confluire nel pericolo di guerra e nell’eccessiva preoccupazione per la propria sicurezza a spese non di rado dell’autonomia, della libera decisione della stessa integrità territoriale delle Nazioni più deboli, che son comprese nelle cosiddette «zone d’influenza» o nelle «cinture di sicurezza ». Le «strutture di peccato» e i peccati, che in esse sfociano, si oppongono con altrettanta radicalità alla pace e allo sviluppo, perché lo sviluppo, secondo la nota espressione dell’Enciclica paolina, è «il nuovo nome della pace». (68)
In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione. Questo è, appunto, l’atto proprio della solidarietà tra individui e Nazioni. Il motto del pontificato del mio venerato predecessore Pio XII era Opus iustitiae pax, la pace come frutto della giustizia. Oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica (Is 32,17); (Gc 3,18). Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della solidarietà. Il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruirne uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore.
Centesimus annus (1 maggio 1991)
(§18) «Certo, dal 1945 le armi tacciono nel Continente europeo; tuttavia, la vera pace si ricordi non è mai il risultato della vittoria militare, ma implica il superamento delle cause della guerra e l’autentica riconciliazione tra i popoli. Per molti anni, invece, si è avuta in Europa e nel mondo una situazione di non-guerra più che di autentica pace. Metà del Continente è caduta sotto il dominio della dittatura comunista, mentre l’altra metà si organizzava per difendersi contro un tale pericolo. Molti popoli perdono il potere di disporre di se stessi, vengono chiusi nei confini soffocanti di un impero, mentre si cerca di distruggere la loro memoria storica e la secolare radice della loro cultura. Masse enormi di uomini, in conseguenza di questa divisione violenta, sono costrette ad abbandonare la loro terra e forzatamente deportate.
Una folle corsa agli armamenti assorbe le risorse necessarie per lo sviluppo delle economie interne e per l’aiuto alle Nazioni più sfavorite. Il progresso scientifico e tecnologico, che dovrebbe contribuire al benessere dell’uomo, viene trasformato in uno strumento di guerra: scienza e tecnica sono usate per produrre armi sempre più perfezionate e distruttive, mentre ad un’ideologia, che è perversione dell’autentica filosofia, si chiede di fornire giustificazioni dottrinali per la nuova guerra. E questa non è solo attesa e preparata, ma è anche combattuta con enorme spargimento di sangue in varie parti del mondo. La logica dei blocchi, o imperi, denunciata nei Documenti della Chiesa e di recente nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis,(50) fa sì che le controversie e discordie insorgenti nei Paesi del Terzo Mondo siano sistematicamente incrementate e sfruttate per creare difficoltà all’avversario.
I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano facilmente appoggi politici e militari, sono armati ed addestrati alla guerra, mentre coloro che si sforzano di trovare soluzioni pacifiche ed umane, nel rispetto dei legittimi interessi di tutte le parti, rimangono isolati e spesso cadono vittima dei loro avversari. Anche la militarizzazione di tanti Paesi del Terzo Mondo e le lotte fratricide che li hanno travagliati, la diffusione del terrorismo e di mezzi sempre più barbari di lotta politico-militare trovano una delle loro principali cause nella precarietà della pace che è seguita alla seconda guerra mondiale. Su tutto il mondo, infine, grava la minaccia di una guerra atomica, capace di condurre all’estinzione dell’umanità. La scienza, usata a fini militari, pone a disposizione dell’odio, incrementato dalle ideologie, lo strumento decisivo. Ma la guerra può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità, ed allora bisogna ripudiare la logica che conduce ad essa, l’idea che la lotta per la distruzione dell’avversario, la contraddizione e la guerra stessa siano fattori di progresso e di avanzamento della storia.(51) Quando si comprende la necessità di questo ripudio, devono necessariamente entrare in crisi sia la logica della « guerra totale » sia quella della « lotta di classe».
(§25) «È unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla Croce che l’uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava».
(§27) « La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e Nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere».
(§43) «L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale».
(§51) «È a questo livello che si colloca il contributo specifico e decisivo della Chiesa in favore della vera cultura. Essa promuove le qualità dei comportamenti umani, che favoriscono la cultura della pace contro modelli che confondono l’uomo nella massa, disconoscono il ruolo della sua iniziativa e libertà e pongono la sua grandezza nelle arti del conflitto e della guerra».
(§52) Non bisogna, peraltro, dimenticare che alle radici della guerra ci sono in genere reali e gravi ragioni: ingiustizie subite, frustrazioni di legittime aspirazioni, miseria e sfruttamento di moltitudini umane disperate, le quali non vedono la reale possibilità di migliorare le loro condizioni con le vie della pace.
Per questo, l’altro nome della pace è lo sviluppo.(105) Come esiste la responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo».
(§60) «Nello stesso Documento ho pure rivolto un appello alle Chiese cristiane e a tutte le grandi religioni del mondo, invitando ad offrire l’unanime testimonianza delle comuni convinzioni circa la dignità dell’uomo, creato da Dio.(116) Sono persuaso, infatti, che le religioni oggi e domani avranno un ruolo preminente per la conservazione della pace e per la costruzione di una società degna dell’uomo».