Mater et Magistra (15 maggio 1961)
(§ 144) «Tanto più che, data la interdipendenza sempre maggiore tra i popoli, non è possibile che tra essi regni una pace duratura e feconda, quando sia troppo accentuato lo squilibrio nelle loro condizioni economico-sociali».
(§ 158) «Ma la tentazione maggiore da cui possono essere prese le comunità politiche economicamente sviluppate è quella di approfittare della loro cooperazione tecnico-finanziaria per incidere sulla situazione politica delle comunità in fase di sviluppo economico allo scopo di attuare piani di predominio».
(§ 159) «Qualora ciò si verifichi, si deve dichiarare esplicitamente che in tal caso si tratta di una nuova forma di colonialismo, che, per quanto abilmente mascherata, non per questo sarebbe meno involutiva di quella dalla quale molti popoli sono di recente evasi e che influirebbe negativamente sui rapporti internazionali, costituendo una minaccia e un pericolo per la pace mondiale».
(§ 160) «È quindi indispensabile e rispondente a una esigenza di giustizia che laccennata opera tecnico-finanziaria sia prestata nel più sincero disinteresse politico, allo scopo di mettere le comunità in via di sviluppo economico nelle condizioni di realizzare esse stesse la propria ascesa economica e sociale».
(§ 200) «Pertanto, qualunque sia il progresso tecnico ed economico, nel mondo non vi sarà né giustizia né pace finché gli uomini non ritornino al senso della dignità di creature e di figli di Dio, prima ed ultima ragione dessere di tutta la realtà da lui creata».
Radiomessaggio (11 settembre 1962)
«Il Concilio Ecumenico sta per adunarsi, a 17 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta nella storia i Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi. Le madri e i padri di famiglia detestano la guerra: la Chiesa, madre di tutti indistintamente, solleverà una volta ancora la conclamazione che sale dal fondo dei secoli e da Betlemme, e di là sul Calvario, per effondersi in supplichevole precetto di pace che previene i conflitti delle armi: pace che nel cuore di ciascun uomo deve avere sue radici e sua garanzia.. È naturale che il Concilio nella sua struttura dottrinale e nellazione pastorale che promuove, voglia esprimere lanelito dei popoli a percorrere il cammino della Provvidenza segnato a ciascuno, per cooperare nel trionfo della pace a rendere più nobile, più giusta e meritoria per tutti lesistenza terrena». (6-8)
Pacem in terris (11 aprile 1963)
(§ 67) «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato. Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne; ed è alimentata dallorrore che suscita nellanimo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che luso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana. Per cui nella nostra era, che si vanta della potenza atomica, è insensato che la guerra possa essere atta a risarcire i diritti violati [la vers. uff. italiana traduce Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda con per cui riesce quasi impossibile pensare che nellera atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia]. Però tra i popoli, purtroppo, spesso regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in armamenti: non già, si afferma – né vi è motivo per non credervi – per aggredire, ma per dissuadere gli altri dallaggressione. È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma lamore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni».