Il tessuto sociale della regione Est della Repubblica democratica del Congo è profondamente lacerato: a causa dei continui e improvvisi spostamenti delle popolazioni per sfuggire alla violenza delle diverse milizie di passaggio, dei numerosi scontri tra gruppi armati, degli innumerevoli stupri subiti dalle donne dogni età, della presenza di vedove, orfani, bambini di strada, bambini soldato, dellincertezza politica che la regione di fatto respira (cf. Regno-att. 12,2004,424).
A metà ottobre un gruppo di rifugiati (donne e bambini) in Burundi è stato bloccato alla frontiera presso Uvira da una sollevazione popolare della città che si rifiutava di accoglierli. Il processo di disarmo e del reintegro nellesercito nazionale segna il passo, perché da un lato alcuni gruppi consegnano delle armi e poi continuano a obbedire agli ordini della propria formazione militare; altri hanno impedito con la violenza ai propri bambini soldato di aderire alla smobilitazione. Persino la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica democratica del Congo (MONUC) è dovuta intervenire militarmente contro le Forces Armées du peuple congolais, sospettate di aver ucciso i bambini soldato che volevano abbandonare le armi. Daltra parte anche gli adulti che lasciano la guerriglia e tornano al proprio villaggio spesso devono affrontare la vendetta di chi è rimasto, non hanno più casa né lavoro.
Il Ruanda in questo momento di forte confusione, dove non è chiaro a quali logiche e mandanti rispondano i diversi gruppi, continua a giocare la carta dellautodifesa: poiché in Congo, nella zona di confine col Ruanda, sono presenti truppe di guerriglieri hutu, il paese sarebbe «costretto» a schierare le proprie truppe per difendere i confini. Con un carosello continuo di conferme e di smentite, le truppe MONUC hanno prima denunciato la presenza in Congo di truppe ruandesi, ottenendo la richiesta formale da parte del Consiglio di sicurezza dellONU del loro ritiro; poi, nonostante il pattugliamento di alcune zone, non sono riuscite a raccogliere prove concrete. Daltra parte lo status di sopravvissuto a un genocidio che il Ruanda si è visto garantire a livello internazionale fa sì che azioni concrete contro questo paese non siano intraprese, né vi sia unanalisi onesta del perverso legame tra guerra ed economia che nella regione continua a prosperare anche a vantaggio del Ruanda.
Il 12 dicembre nelle Chiese protestanti e cattoliche di Goma è stato letto un messaggio congiunto per la pace e laccoglienza. Viene denunciato lo «spirito di divisione e il tribalismo» e sinvitano tutti i fedeli cristiani a «promuovere la pace nei cuori, nella città, nella provincia e nel paese». Al governo i leader cristiani chiedono di «mettere in piedi, al più presto, un esercito e una forza di polizia nazionale integrati»; ai politici di Ruanda e Congo di «privilegiare la vita diplomatica a quella delle armi. I dirigenti dei due paesi devono convincersi che i propri popoli sono condannati a vivere insieme e che di conseguenza ogni soluzione militare costituisce una grave ferita». Anche i vescovi cattolici della regione dei Grandi laghi sono intervenuti con un documento del 28 ottobre scorso in cui si parla di «pace (che) si trova ancora minacciata da alcuni venti contrari». Parole non particolarmente incisive se rapportate a un conflitto che conta mediamente 31.000 morti al mese e un totale di 3,8 milioni di morti in sei anni: il più grave bilancio di vite umane dopo la seconda guerra mondiale.
articolo tratto da “Il Regno”