L’instabilità è il filo rosso che attraversa la storia del Sud Sudan, già da molto prima della sua indipendenza, di cui si è celebrato, lo scorso 9 luglio, il nono anniversario. È una nazione giovane, che fu invasa dall’entusiasmo all’alba del 9 luglio 2011 per l’occasione che si era conquistata in tanti anni di lotta e poi con un plebiscitario 98,8% di Sì al referendum sull’indipendenza. Ma oggi è uno dei paesi del mondo che vive una crisi dai tanti aggettivi (complessa, protratta, dimenticata) e dove la pace non ha mai fatto davvero capolino, andando avanti a singhiozzo.
L’anniversario 2020 è stato avaro di celebrazioni, sia per la pandemia che ha rallentato e blindato la vita anche in Sud Sudan, sia perché, nonostante una lenta ripresa del percorso di pace, la speranza di vivere un’indipendenza serena e prospera si va affievolendo ogni anno di più. Ancora oggi, il popolo sudsudanese non può raccontare come si vive nella pace, semplicemente perché non ha mai avuto la fortuna di goderne nella terra natia.
Dopo il lungo percorso dell’indipendenza, dall'impero britannico prima, poi dal Sudan, attraverso due lunghi conflitti armati, il paese è piombato in una guerra civile, caratterizzata da un alternarsi di scontri aperti e periodi di calma apparente, ma mai davvero liberi da violenze. Tanti i cessate il fuoco firmati e non rispettati, due gli accordi di pace illusori (2015 e 2018), fino al nuovo spiraglio di speranza dato dalla firma della Dichiarazione di Roma del gennaio 2020. Nel frattempo, appelli e preghiere per la pace si sono levati da tanti soggetti, in primis papa Francesco. Raccogliendo i numerosi inviti del Pontefice a non dimenticare il Sud Sudan, Caritas Italiana ha mantenuto saldo il suo impegno, ormai trentennale, nel paese africano, anche in ragione del fatto che la sua crisi complessa si è aggravata a causa della pandemia di Covid-19, che come nel resto dell'Africa accresce la fame più di quanto non affolli i pochi ospedali.
Sottosuolo ricco, società povera
Il Sud Sudan che conosciamo oggi non è solo il più giovane stato al mondo, ma un intreccio di storia e interessi politici-commerciali radicato in un terreno ricco di identità, tradizioni e culture, ma anche in un sottosuolo altrettanto ricco di risorse naturali.
Gli equilibri fragilissimi del paese sono andati presto in frantumi, dopo l’indipendenza. La guerra civile, di fatto ancora in corso, ha causato in 9 anni tra 380 e 400 mila vittime, consegnando il Sud Sudan alla spirale della povertà, non solo materiale. Secondo dati Unicef dello scorso dicembre, 2,2 milioni di bambini sudsudanesi in età scolare non vanno a scuola, il 73% degli adulti sono illetterati e il 70% degli insegnati della scuola primaria non hanno un’adeguata formazione. Il 30% delle già esigue scuole sono inaccessibili, perché distrutte o danneggiate dal conflitto. Ancora: solo il 41% della popolazione locale ha accesso all’acqua potabile e l’11% a servizi igienico-sanitari adeguati, mentre il 75% non ha accesso al sistema sanitario.
Molti altri dati potrebbero essere aggiunti a questa inquietante lista. Tra quelli più drammatici, vi sono quelli dei profughi. Il Sud Sudan è infatti ormai da anni tra i primi 5 paesi al mondo per numero di persone scappate dalla propria casa, oltrepassando i confini o rimanendo all’interno del paese. L’Unhcr ha denunciato a fine giugno 2020 più di 2,2 milioni tra rifugiati e sfollati interni. I profughi sudsudanesi però non fanno notizia, in quanto non bussano alle porte dell’Europa: si rifugiano prevalentemente in nazioni vicine, contribuendo a fare della crisi del proprio paese una crisi regionale, paragonabile a quella siriana. Le principali destinazioni sono Uganda (39% dei profughi) e Sudan (36,4%). E poi ci sono quelli che rimangono, anche nella propria terra, ma hanno bisogno di aiuto: secondo gli ultimi dati forniti dalle Nazioni Unite, sono circa 7,5 milioni le persone che necessitano di assistenza umanitaria, e i bambini in stato di malnutrizione addirittura 1,3 milioni.
Dicotomia tra centro e periferia
L’instabilità, d’altronde, si diceva all’inizio, riguarda sin troppe sfere della vita del paese: politica, amministrativa, economica e sociale, persino geografica. Per non parlare della gestione della sicurezza. La pandemia da Covid-19, al di là delle implicazioni sanitarie, non fa altro che esacerbare questa instabilità, rallentando o addirittura fermando alcuni elementi della rinascita, che erano al centro degli accordi di pace.
Il paese vive ancora una profonda dicotomia tra il centro, rappresentato dalla capitale Juba, dove si concentrano gli investimenti e il confronto politico sotto la luce dei riflettori, e la periferia, che sostanzialmente è stata lasciata indietro e ancora più esposta a violenze incontrollate, ma nella quale si gioca il vero equilibrio politico.
Nei territori, gli anni delle guerre hanno favorito una frammentazione politica molto profonda, che ancora oggi vede prevalere gli interessi personali sulla ricerca del bene comune. Preoccupati da questa deriva, il 20 giugno, dopo la ripresa degli scontri armati e le conseguenti tante vittime tra i civili, i leader religiosi del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan (Sscc) hanno lanciato un appello: «Chiediamo ai leader del governo di transizione di unità nazionale R-TGoNU e dell’opposizione di rimanere fedeli agli accordi che hanno firmato e di garantire la loro piena e tempestiva attuazione. Chiediamo l'immediata cessazione delle ostilità e la nomina dei governatori di stati e contee. Chiediamo ai nostri leader di dare più valore alle persone, al di là delle posizioni, del potere e degli interessi di partito. Allo stesso modo, chiediamo al nostro popolo di fare la propria parte, pentendosi dei propri peccati e soprattutto perdonandosi gli uni con gli altri».
L’impegno verso la stabilità deve essere uno sforzo condiviso dei leader, ma anche dalla popolazione, evidenziano i leader religiosi. Fondamentale è mettere da parte interessi personali e familiari, abbandonando alleanze comode e la scalata a posizioni di potere. Difficile è però superare l’ostacolo della corruzione, che lascia il Sud Sudan in coda a tutte le classifiche sulla trasparenza.
Eppure, il potenziale del paese è sempre stato enorme. Già alla fine della lunga guerra per l'indipendenza dal Sudan e alla nascita della Repubblica del Sud Sudan, si sapeva che la grande e diffusa povertà, la grave carenza di infrastrutture (comunicazioni, trasporto, educazione, sanità) avrebbero costituito sfide ineludibili. Ma le aspettative di una popolazione dilaniata dal conflitto erano vivide, e riposte nei proventi dall’esportazione del petrolio, finalmente libera da ingerenze esterne, da re-investire in un’economia diversificata e in servizi di base all’altezza dei bisogni. Però la mancanza di strutture per la raffinazione e l’esportazione del petrolio, ancora concentrate in territorio sudanese, facevano presagire che lo schema non sarebbe stato realizzato con facilità. E infatti a oggi nessun progresso è stato fatto; anzi, il paese è ancora più vulnerabile, né si è visto lo sviluppo di infrastrutture e servizi che, con la pandemia, si sono rivelati ancora più necessari.
Le condizioni per tornare al sogno comune
La pace e la stabilità, dunque, risultano condizioni necessarie per tornare al sogno comune: dare ai figli del Sud Sudan e alle generazioni future una vita dignitosa, che possa trasformare le grandi e importanti ricchezze naturali in una vera indipendenza, in servizi, salute, educazione. Per tutti. Come ha ricordato papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2020, la pace è una «tensione esistenziale» alla quale aspira tutta l’umanità. Implica perciò un movimento, l’abbandono di interessi personali per un bene comune e condiviso. Il cammino è lungo, in Sud Sudan l’obiettivo appare lontano. Per raggiungerlo, alcune tappe sono fondamentali: formazione e riconciliazione a livello politico, militare e comunitario; trasparenza nella gestione delle risorse naturali e lotta alla corruzione; smilitarizzazione delle aree civili e raccolta delle armi pesanti a corto, medio e lungo raggio per un disarmo reale, come previsto dagli accordi di pace; coinvolgimento della comunità per un approccio partecipativo alla pace, dando priorità ai giovani e alle donne come attori di cambiamento.
Per la complessità e l’ampiezza dei bisogni della popolazione è necessario, in Sud Sudan più che altrove, un approccio fortemente sinergico e coerente tra le diverse componenti dell’aiuto esterno e delle politiche interne e internazionali, garantendo una significativa ed efficace risposta umanitaria, favorendo la centralità delle comunità locali e la sostenibilità delle scelte a livello familiare.
Nicoletta Sabbetti